martedì 8 giugno 2010

BedZED, quartiere periferico a sud di Londra, vicino a Wallington



“It's the architecture, stupid”. Così non molto tempo fa veniva risposto alla domanda: chi ha in mano le chiavi del termostato globale?
Certamente la competizione su chi ha la maggior responsabilità nel consumo di risorse non rinnovabili e nelle emissioni di gas ad effetto serra lascia il tempo che trova. Di volta in volta, in base al tipo di dati che si sceglie di analizzare potremmo rispondere l'automobile, la generazione elettrica, l'economia industriale o l'agricoltura intensiva. Ma è chiaro per chiunque che il settore delle costruzioni e degli edifici continua a consumare suolo, materiali non rinnovabili ed energia sia in fase di costruzione, sia in fase di esercizio e persino in fase di dismissione.
Per questo motivo l'azione legislativa sta dando una crescente importanza alla regolazione delle attività di costruzione e di ristrutturazione. Basti pensare alla Direttiva Europea 91 del 2002 sulle prestazioni energetiche degli edifici, al suo processo di recepimento e all'azione di verifica che porterà probabilmente presto a ulteriori provvedimenti legislativi. Basti pensare che nelle scorse settimane la Commissione del parlamento europeo che si occupa di energia industria ricerca e trasporti (ITRE) ha votato una mozione che 
dovrebbe portare all'obbligo per tutti gli edifici nuovi di risultare a emissioni zero entro il 2019.

Ma di cosa si parla invece nelle riviste di architettura, nelle mostre, nelle università o sui quotidiani nazionali? E soprattutto, cosa viene chiesto dai committenti, e in particolare dai committenti pubblici o dai grandi committenti privati?
Premesso che non siamo architetti e che quindi il nostro è uno sguardo collaterale, pronto a qualunque smentita, ci sembra in tutta onestà di poter dire che gli approcci più interessanti in un'ottica di post picco ancora stentano ad affermarsi. Per usare un eufemismo.
Potrebbe essere interessante cercare di ripercorrere le migliori esperienze, che affondano in molti casi le radici in progetti che iniziati a partire dai primi anni settanta. Ma spesso si impara di più da un esperimento non riuscito piuttosto che da uno riuscito.
Preferiamo quindi farci condurre da Franco La Cecla in un viaggio attraverso quello che ancora non funziona (
Franco La Cecla “Contro l'architettura” Bollati Boringhieri 2008, 117 pag. 12 euro). Architetto di formazione, La Cecla decide presto di rinunciare a praticare la professione (come spiega bene lui stesso nel primo capitolo), ma negli anni è coinvolto come consulente in innumerevoli progetti a livello internazionale. In questo agile volumetto racconta efficacemente le sue più recenti esperienze che lo hanno portato a operare a Tirana, a Barcellona e a New York in quest'ultimo caso con Renzo Piano nel progetto del nuovo Campus della Columbia University ad Harlem. Dalle esperienze non riuscite di La Cecla c'è molto da imparare: “Trasformare finalmente le città in qualcosa di moderno, usando tecnologie, edilizia, servizi per correre ai ripari adesso e non tra un po', questo è forse l'unico compito che potrebbero assumersi gli architetti, a patto che ne siano capaci e che la loro competenza non sia invece ridotta a quella di semplici vetrinisti di boutique.
Essere contemporanei significherebbe oggi prendere sul serio la catastrofe imminente, la slumizzazione del mondo, la fine della città per esaurimento delle risorse, la questione della sopravvivenza, di una convivenza umana che faccia i conti con un ambiente costruito sostenibile, con una redistribuzione delle opportunità di accesso alle risorse, significherebbe adoperarsi in ogni modo per evitare che l'intera città diventi un luogo di conflitti efferati tra etnie, forze, gangs e soggettività impazzite.”
Quanto di questo riusciamo a portare nelle nostre università, anche in quelle dove si provano a sperimentare nuove forme didattiche? Quanto siamo contemporanei se con questo intendiamo chi 
“non coincide perfettamente” con il suo tempo “né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo.” (Giorgio Agamben, “Che cos'è il contemporaneo?” Nottetempo 2008, 28 pag. 3 euro).
La provocazione di La Cecla riguarda soprattutto l'architettura delle grandi star (o archistar, come proposto in 
Silvana Micheli e Gabriella Loricco “Lo spettacolo dell'architettura. Profilo dell'archistar©” Bruno Mondadori 2003, 240 pag. 24 euro).

La realtà edilizia italiana è però ben più articolata, riguarda non solo architetti, ma anche ingegneri, progettisti di impianti e geometri, e comunque passa attraverso oltre 500 000 imprese che impiegano mediamente tre addetti ciascuna. Nella concreta esperienza di cantiere, specie in certi contesti, è inoltre fondamentale il ruolo dell'autocostruzione, magari anche attraverso interventi abusivi, in molti casi condonati a posteriori. Del resto oltre il 50% delle abitazioni italiane sono realizzate in edifici che ospitano al massimo quattro unità abitative e che quindi spesso si prestano all'intervento diretto del proprietario durante la fase di costruzione.
Insomma, la realtà concreta della maggioranza degli interventi edilizi è molto lontana dalle riviste patinate o dagli inserti specializzati dei quotidiani nazionali. Anche in questo contesto però c'è qualcuno che prova a essere contemporaneo e anacronistico allo stesso tempo. È il caso ad esempio di Adriano Paolella che insegna Tecnologia alla Facoltà di Architettura di Reggio Calabria.

In un libretto di qualche tempo fa (
Adriano Paolella “Progettare per abitare. Dalla percezione delle richieste alle soluzioni tecnologiche” Elèuthera 2003, 136 pag. 10 euro) aveva già raccontato di alcuni interessanti laboratori durante i quali propose ai suoi studenti di leggere la realtà del costruito (e soprattutto dell'autocostruito) in alcuni quartieri di Reggio Calabria. Il tentativo era di interpretare i desideri e le esigenze degli abitanti stessi oltre che di verificarne le abilità operative e le capacità tecniche. A partire da questo gli studenti avrebbero dovuto proporre delle soluzioni progettuali ai bisogni emersi, che fossero direttamente realizzabili dagli occupanti, al limite con l'ausilio di artigiani locali.“L'architettura tradizionale e le tecniche connesse sono le rappresentazioni di un mondo spesso povero e oppresso in cui le condizioni di vita erano insostenibili, ciò non toglie che queste tecniche siano una risposta di capacità tecnica applicata di grande valore che non può essere dispersa”. Si tratta quindi di ri-appropriarsi delle tecnologie appropriate, apparentemente inattuali in un contesto dove il settore edilizio si è caratterizzato per una ricerca di soluzioni tecnicamente innovative ma non in grado di garantire alcun miglioramento in ordine ai temi sociali e ambientali.
Sulle tecnologie appropriate, contiamo di tornare presto. Per ora basti ricordare che il concetto fu introdotto da 
Ernest Schumachernei primi anni settanta. In studi successivi si è arrivati a definire le tecnologie appropriate come quelle tecnologie che cercano di aiutare le capacità umane di capire, operare e migliorare le tecnologie perché possano portare un beneficio alle persone, avendo il minor impatto ambientale e sociale sulle comunità e sul pianeta.
Per essere appropriata una tecnologia dovrebbe essere quindi di piccola scala, energeticamente efficiente, ambientalmente compatibile, ad alta intensità di lavoro, controllata dalla comunità e sostenibile a livello locale.
Paolella è tornato più recentemente su questi temi (
Adriano Paolella “Attraverso la tecnica. Deindustralizzazione, cultura locale e architettura ecologica” Elèuthera 2008, 79 pag. 9 euro) ricordandoci l'importanza della comunità che deve tornare a poter gestire il proprio territorio anche attraverso le sue capacità tecniche. I processi produttivi devono “tornare a rispondere alle effettive necessità delle comunità locali”.Attraverso la capacità tecnica diffusa, e la produttività locale, si può stringere il legame tra domanda e offerta, tra insediamenti e uso sostenibile delle risorse locali.”
Ma l'approccio di Paolella va oltre il ruolo dell'architettura e dei progettisti: 
“ci si attenderebbe che la ricerca, l'innovazione e l'informazione scientifica e tecnologica agissero prioritariamente per contribuire alla risoluzione dei problemi; viceversa, davanti alla crescente complessità del sistema, molto frequentemente reagiscono aumentando fittiziamente la complessità e pervenendo a soluzioni complicate. Questo perché la ricerca e la tecnica praticate presuppongono di risolvere i problemi senza cambiare le condizioni dell'esistenza, lasciando immutati i caratteri dei sistemi produttivi e gli interessi degli individui e delle aziende, non chiedendo una modificazione dei comportamenti e dei processi.”Paolella propone di “eliminare le ridondanze”, “allungare i tempi della produzione, diffondere le conoscenze, ridurre le informazioni e i prodotti”. Sembra quasi riecheggiare il motto di Alex Langer: più lento, più dolce, più profondo.
Le riflessioni di Paolella sono molto stimolanti, e aprono una sfida soprattutto per chi, come noi, ritiene che la normativa e la regolamentazione possano comunque vestire un ruolo fondamentale nel migliorare la qualità del costruito.

Sarebbe fin troppo facile in questo momento sottolineare l'importanza della normativa antisisimica per le nuove costruzioni. Ma anche limitandoci al problema energetico, noi riteniamo ad esempio che la certificazione energetica degli edifici sia uno strumento fondamentale, ancora non del tutto compreso e metabolizzato dal sistema paese.
Infatti pensiamo sia possibile rispondere all'esigenza di “abitare un luogo e di utilizzarne le risorse ai minori livelli energetici possibili” attraverso la “definizione di soluzioni specifiche per i luoghi e le persone” e pensiamo che questo sia assolutamente compatibile, almeno in linea di principio, con gli strumenti regolativi che si stanno affermando.
La sfida è quindi, secondo noi, nel cercare di modulare le normative in modo tale da non indirizzare necessariamente il progettista su soluzioni pre-fabbricate, e di rimanere aperti quindi anche alla valorizzazione delle risorse locali, in termini di energia, di materiali e di maestranze. Solo in questo modo è possibile pensare che la certificazione non sia vista semplicemente come l'ennesimo adempimento burocratico fine a se stesso, ma possa diventare uno degli strumenti per la valorizzazione del nostro patrimonio edilizio. Soprattutto negli interventi di ristrutturazione e soprattutto nel caso dei piccoli edifici. A questo speriamo si possa lavorare presto.

created by Gianluca Ruggieri e Valentina Sachero

CASE IN BIOEDILIZIA. BedZED: abitare sostenibile a Londra.


Beddington Zero Emission Development (ribattezzato BedZED) è un quartiere a sud di Londra dove è possibile vivere la City nel pieno rispetto dell'ambiente. Questo originale sobborgo - edificato tra il 2000 e il 2002 su progetto dell'architetto Bill Dunster - racchiude 87 case, 17 appartamenti e più di 1.000 mq di spazi commerciali costruiti perseguendo un preciso obiettivo: zero emissioni di Co2.
L'ambizioso obiettivo traspare subito dalle prime decisioni prese: imateriali utilizzati sono infatti riciclati oppure naturali a km 0, ossia provenienti dall territorio locale (raggio max 60 km). Ma per rendere BedZED sostenibile occorreva altro. Ecco perchè sugli edifici sono stati installati pannelli fotovoltaici e solarii tetti ed i muri isolati e l'acqua piovana recuperata per uso sanitario e d'irrigazione. A questi principali interventi si è aggiunta poi l'eco-mobilità urbana (veicoli elettrici o bicicletta) e una rigida raccolta differenziata dei rifiuti.
Il quartiere verde perfetto? Purtroppo no. Stando ad un articolo che ho trovato su Rinnovabili.it - "BedZED: grande flop o progetto troppo ambizioso?" - pare infatti che a distanza di anni siano sorti alcuni problemi che hanno minato la completa sostenibilità del quartiere. Alcuni esempi: riscaldamento ed elettricità, affidate alle biomasse ora non funzionano più, costringendo ad approvigionarsi dalle reti nazionali di energia, mentre il car sharing non è mai decollato e gli abitanti continuano tutt'ora a spostarsi con la loro auto privata.
Credo comunque che valga la pena di considerarlo un modello a cui fare riferimento: nonostante molte soluzioni progettate non siano effettivamente attive resta l'impegno di coloro che l'hanno ideato e costruito e la loro volontà di contribuire al cambiamento. Almeno non si sono fermati alle parole...ed è già tanto!

Un Grillo mannaro a Londra

Un Grillo mannaro a LONDRA, Un film intorno al tema dell' ecosostenibilità, che cerca di proporre soluzioni possibili alla grave situazione ambientale che incombe sul nostro pianeta.

Nel 2010, per la prima volta nella mia vita ho fatto un tour all'estero con lo spettacolo: "Incredible Italy", un avviso ai naviganti sulla capacità di contagio, nel bene e nel male dell'Italia. Ultimamente soprattutto nel male. Siamo un Paese straordinario che ha esportato il fascismo, le banche, la mafia. Noi ci siamo abituati, abbiamo anticorpi millenari, ma gli altri sono indifesi. Come i pellerossa con il vaiolo, i maya con il morbillo. Il virus si può sviluppare in malattie spaventose: il nazismo, i crack del 1929 e del 2008, Al Capone e Cosa Nostra. Avevo qualche timore prima di partire, come un principiante al debutto. Ma sono stato a Londra, Parigi, Monaco di Baviera, Bruxelles e in altre città europee e ovunque c'è stato un sold out. Grazie a tutti coloro che l'hanno consentito. In Italia ne ha parlato solo qualche giornale di provincia, come una notizia di colore o per per dare del farabutto al comico che sputtana l'Italia. Ma come potrei rubare la scena al più grande sputtanatore italico degli ultimi 150 anni, lo psiconano asfaltato? E' una missione impossibile. A Londra sono rimasto una settimana, sono stato invitato allaLondon School of Economics e a Oxford per tenere un discorso. L'ambasciata italiana si è lamentata con l'Università di Oxford per l'invito, se fossero stati invitati Cuffaro o Dell'Utri avrebbero ringraziato il rettore. Ho incontrato Ken Livingstone, l'ex sindaco di Londra che ha proibito i parcheggi e rivoluzionato i trasporti urbani. Mi sono fatto spiegare dalla Environment Agency come il Tamigi sia diventato un fiume pulito con i delfini che lo risalgono dal mare, mentre solo vent'anni fa era una cloaca. Il ministro dell'Energia mi ha ricevuto nel suo ufficio. Sono stato alla BBC, al The Economist dove non riescono a credere a quello che succede nel nostro Paese e ne hanno paura. Se è successo da noi, può succedere ovunque. La democrazia si può trasformare in telecrazia. Ho visitato un quartiere ecosostenibile con case che costano e consumano la metà delle nostre. Ho visto un altro pianeta da cui, pur con tutti i suoi difetti, ci separano anni luce. E non solo per le file ordinate all'autobus, il passaporto in un giorno, le macchine che si fermano se sfiori una striscia pedonale, il wi-fi veloce ovunque e la possibilità per un portatore di handicap di circolare per strada. O per le mille altre cose che rendono la vita più semplice, diversa dalla giungla che è diventata l'Italia. Anche per tutto questo, ma l'Inghilterra è soprattutto un mondo differente perché si discute di futuro. Da quanto non ci occupiamo del nostro futuro? Una volta, varcando la frontiera italiana si notavano delle differenze, ma non c'era quella sensazione di aver lasciato dietro di sé uno stagno immobile, una realtà congelata intenta a osservare il proprio ombelico. Ho incontrato molti ragazzi e ragazze che sperano in un cambiamento dell'Italia per poter ritornare. Mi è sembrato a un certo punto di essere scambiato per Garibaldi di fronte a tanto affetto. A Londra, non posso negarlo, mi sono anche divertito. Gli inglesi sono un'istigazione alla satira da strada. Il mio viaggio nella Londra del secondo millennio è diventato un racconto: "Un Grillo mannaro a Londra".


http://www.leggo.it/articolo.php?id=65663

giovedì 3 giugno 2010

Ecosostenibilitàrchitettura


Sostenibilità e Architettura
Dobbiamo inscrivere in noi una coscienza ecologica.
Il conoscere il nostro legame consustanziale con la biosfera
ci porta ad abbandonare il sogno prometeico
del dominio dell'universo per alimentare,
al contrario,
l'aspirazione alla convivialità sulla Terra”
Edgar Morin



L’ambiente naturale:
è l'insieme dei fattori che influenzano gli esseri viventi, spontaneamente regolati dal corso della 
natura, in contrasto con altri ambienti o milieu "non naturali"
 in quanto creati dall'uomo.Lo sviluppo sostenibile: è una forma di sviluppo (che comprende lo sviluppo economico, delle città, delle comunità eccetera) che non compromette la possibilità delle future 
generazioni di perdurare nello sviluppo preservando la qualità e la quantità del patrimonio
 e delle riserve naturali (che sono esauribili, mentre le risorse sono considerabili come 
inesauribili). L'obiettivo è di mantenere uno sviluppo economico compatibile con l'equità 
sociale e gli ecosistemi, operante quindi in regime di equilibrio ambientale.
Non si può comprendere il concetto di architettura sostenibile se non partendo da quelli di 
architettura, di ambiente e di sostenibilità separati.
L'architettura può dirsi sostenibile, solo quando è garante di un’arte dell'abitare in sistemica 
armonia universale con l’ambiente, nel senso cioè di garante del rispetto del diritto alla vita, 
qualunque sia la sua dimensione di definizione, qualunque  siano i sistemi di riferimento. 
Ambiente ed Architettura devono dunque avere stesso futuro, correre insieme nel tempo 
nello spazio.
Costruire sostenibile o in bioedilizia significa ridurre al minimo l’impatto delle costruzioni sulla 
salute dell’uomo e sull’ambiente, attraverso un limitato consumo di risorse non rinnovabili e 
l’utilizzo di materiali non nocivi. Con il termine edilizia biotecnologia si intende dunque quella 
scienza interdisciplinare che si occupa di tutto ciò che concerne il rapporto 
uomo-edificio-ambiente.
Questo legame risale alla preistoria, quando l’uomo ha avvertito la necessità di costruirsi un 
riparo per proteggersi dagli agenti atmosferici (pioggia, vento, freddo…) ed ha creato le prime 
architetture. Queste erano profondamente radicate nel territorio, sfruttavano le materie 
disponibili in zona e sviluppavano tecniche costruttive legate alla cultura materiale e alle 
tradizioni locali.

Victor Olgyay, infatti, nel suo libro “Progettare con il clima. Un approccio bioclimatico al 
regionalismo”, partendo dalla capacità di adattamento degli esseri viventi, descrive in 
modo chiaro e approfondito quali dovrebbero essere per un progettista, le soluzioni migliori per 
sfruttare in maniera idonea i materiali da costruzione e per consentire al fruitore un ideale 
“zona di comfort”.

Applicando in quattro climi diversi risultati ottenuti de scienze diverse, la biologia per 
misurare e progettare la zona de comfort, la meteorologia per una valutazione precisa delle 
condizioni climatiche, l’ingegneria per una progettazione ed esecuzione razionale, Victor Olgyay 
mostra come si possono intraprendere con maggior esattezza le teorie architettoniche di, 
orientazione, ombreggiamento, forma, ventilazione, localizzazione e relativi effetti sui materiali.
 Le sue elaborazioni suggeriscono espressioni regionali nuove e stimolanti, e diversi schemi per 
progettazioni urbanistiche.”
Secondo un articolo apparso sulla rivista britannica “New Scientist”, esista già un modello di 
sviluppo che segue i criteri ecosostenibili, quello delle “bidonville", le
baraccpoli sorte ai margini delle grandi città asiatiche e sudamericane. Queste, pur mostrando situazioni igieniche precarie e
 di grande povertà, in linea teorica soddisfano pure i capisaldi ecologici previsti. Pur essendo ad alta densità abitativa, hanno case basse, vicolo pedonali e chi ci vive ricicla tutti i rifiuti che produce oltre a mostrare una grande vitalità sociale e solidale.

Dunque l’ambiente, inteso come clima e come fonte di materie prime, condizionava e 
condiziona profondamente l’architettura e determina le sue caratteristiche. Con il passare del tempo gli edifici si sono evoluti e, dalla capanna primitiva, si è giunti ai grattacieli moderni. I nuovi materiali, l’ampia disponibilità di energia e la rapida evoluzione delle tecnologie hanno spezzato l’antico legame edificio-ambiente, che da sempre ha caratterizzato un ruolo fondamentale nella progettazione.
L’edificio ha così assunto il ruolo di contenitore, una sorta di barriera ermeticamente sigillata che 
separa l’interno dall’esterno e che garantisce il comfort agli occupanti grazie all’impiego di impianti di climatizzazione.  Il risultato di questa inversione di tendenza ha avuto ripercussioni negative sia 
sull’uomo che sull’ambiente: gli edifici moderni sono infatti causa di inquinamento sia dell’ambiente 
interno che di quello esterno.
Le mura degli edifici nell’architettura bioecologica, invece, assumono il ruolo di “terza pelle”. 
Per l’uomo, la nostra prima pelle è il tessuto cutaneo, la seconda l’abbigliamento, la terza, appunto, l’edificio in cui viviamo.


Ciò che accomuna questi tre “strati” è il fine di garantire protezione e 
benessere all’organismo, riparandolo dagli agenti esterni che potrebbero danneggiarlo.
L’edificio quindi non è più inteso come un contenitore ermetico, ma viene così considerato 
come un organismo vivo, che oltre a proteggere dagli agenti esterni, è in grado di respirare e di 
consentire cioè degli scambi tra ambiente interno ed esterno, come una sorta di grande polmone.
In quest’ottica, quindi, assumono grande importanza la scelta dei materiali da costruzione, il loro 
impiego e le scelte tecnologiche adottate; costruire degli edifici che, senza l’uso di condizionatori sono ugualmente vivibili, rappresenta l’avvicinamento ad un salubre approccio sostenibile che dovrebbe 
entrare a far parte della mentalità di ogni progettista.
In primo luogo i climatizzatori, determinano un elevato dispendio energetico, si pensi al consumo di combustibili per il riscaldamento degli edifici ed un elevato inquinamento atmosferico che danneggia l’ambiente esterno.
In secondo luogo anche il comfort interno dell’edifico ne risente, tanto che dagli anni ’80 si parla di “sick building sindrome”, ovvero di sindrome da costruzione malsana.
L’inquinamento “indoor” può essere ricondotto alle moderne tecniche di costruzione e alle emanazioni derivanti da alcuni materiali di comune impiego (vernici, laccature, rivestimenti sintetici…). Ovviamente inquinamento esterno ed inquinamento interno hanno forti ripercussioni sul sistema biologico dell’uomo.

La bioedilizia, appunto, si propone di risolvere questi problemi riallacciando l’antico legame tra uomo, edificio e ambiente, reciprocamente dipendenti l’uno dall’altro.
Perseguire obiettivi di sostenibilità nel settore edilizio significa ripensare completamente e rinnovare le attuali prassi che conducono alla realizzazione del progetto, riconoscendo che le scelte operate investono l’intero ambito del processo edilizio: a partire dalla produzione fuori opera dei materiali che compongono l’edificio, fino alla demolizione a fine vita dello stesso. Per il controllo di questo insieme complesso di fattori è necessario definire un metodo di progettazione che, a partire dalla conoscenza del luogo in cui si colloca l’intervento, permetta di definire e perseguire con chiarezza gli obiettivi di salvaguardia dell’ambiente, di uso razionale delle risorse, di benessere e di qualità formale. L’approccio ecosostenibile richiede quindi una vera e propria rivoluzione nelle prassi e nei comportamenti, ed obbliga gli operatori del processo edilizio a ragionare e lavorare in maniera concertata per tradurre in scelte progettuali integrate i diversi obiettivi. La relazione tra sostenibilità e arte è perseguita da molti architetti  attraverso: l’integrazione degli edifici con il paessaggio circostante, la conversione della tecnologia ambientale in termini estetici e lo sviluppo di un convincente contesto teorico-culturale.
James Wines, che ha detto: “nessuno accetterebbe di farsi progettare e realizzare un edificio 
perfetto, ma brutto a vedersi ha elencato otto modi di esaminare il tema :


  1. integrazione di architettura e paesaggio, utilizzando elementi della terra e della vegetazione in modo che sembrino far parte delle materie prime della costruzione;
  2. ricerca di un’architettura “originata dalla natura”;
  3. inserimento attento della nuova architettura nella cultura del luogo;
  4. traduzione della tecnologia in arte;
  5. fusione tra i principi della progettazione verde “storica” e le innovazioni tecnologiche ecologicamente mirate;
  6. sensibilizzazione del cliente verso l’architettura sostenibile e la fusione dell’edificio con il contesto;
  7. individuazione degli aspetti sociali dell’architettura verde, con particolare riferimento all’urbanistica;
  8. elaborazione di utopie e visione profetiche del futuro.
Una casa fatta con materiali naturali, che non sono pericolosi
 per chi li produce e per chi ci deve abitare, o che privilegia la qualità della vita ed il benessere psico-fisico dell’uomo, impiegando risorse naturali, evitando di causare emissioni dannose, è una casa ecologica.
La bioarchitettura, da questo punto di vista, si pone all’avanguardia nel superamento dagli eccessi della tecnologia, per la capacità di mostrare che un’architettura amica della natura è amica dell’uomo.

Le città moderne sono state costruite con l’idea che superficie e petrolio fossero risorse 
inesauribili
Elio Piroddi, docente di urbanistica alla Sapienza di Roma.

L’uomo, infatti, rendendosi conto del contrario, ha iniziato a costruire grattacieli e con 
l’aumentare del costo del petrolio, è sempre alla ricerca di fonti di energia “alternative”.
Purtroppo, con l’aumentare degli edifici ad alta densità di popolazione, si è assistiti ad un
 problema che riguarda il microclima cittadino. Asfalto e cemento, infatti, fanno salire la
 temperatura dell’aria perché assorbono più energia solare e ne riflettono meno rispetto 
ad alberi, prati o corsi d’acqua; gli edifici alti, ostacolano il passaggio dei venti che potrebbero
 raffreddare un po’ l’aria. Il risultato è che di giorno le città sono più calde di circa 1,00°C
 (rispetto alle campagne), e di notte la differenza di temperatura può arrivare anche a 6,00°C.
Il problema può essere risolto, come è successo a Barcellona: costruendo in ogni piazza delle
fontane, per diminuire la temperatura, e creando una conformazione urbanistica che presenta, 
molti slarghi nei crocevia e gli angoli smussati dei palazzi, che agevolano il flusso d’aria naturale.


Naturalmente, però sarebbe tutto un altro discorso se volessimo parlare di grattacieli che
 promuovono il “verde”, come ad esempio quello che Sorgerà nel 2010 nella città cinese di 
Guanzhou, a 180 km da Hong Kong, la Pearl River Tower, il grattacielo più verde del mondo. 
Questo edificio, non solo sarà energeticamente autosufficiente, ma per la prima volta produrrà più 
energia di quello che consuma: una pietra miliare sull’auspicata via dell’indipendenza 
energetica delle costruzioni, e l’inizio di una nuova era. Il Pearl River Tower progettato dal 
noto studio mondiale di architettura di Chicago, Skidmore, Owings & Merrill, che richiama 
per la sua forma un’ala di aereo, sarà alto 320 metri con 71 piani, e avrà una doppia parete di 
vetro e pannelli solari. La sua peculiarità consiste in due aperture orizzontali profilate ad 
imbuto per incanalare il vento che alimenterà le turbine eoliche interne, in grado di generare
 l’energia necessaria per il riscaldamento, la ventilazione e la climatizzazione, inoltre
 “Le aperture alleviano la pressione del vento sulla facciata, nonché la pressione negativa, 
potenzialmente dannosa, sul lato opposto dell’edificio” spiega Gordon Gill uno degli architetti
 del progetto, “Ne risulta una maggiore stabilità dell’edificio”.
Un altro esempio può essere quello del Bosco Verticale
l’edificio progettato dallo studio Boteri che vede la costruzione di due torri di 108 metri e 23 piani l’una, 78 metri e 21 piani l’altra, che ospiteranno 900 alberi (di varia specie asseconda dell’orientamento) fino a sei metri di altezza e arbusti per una superficie complessiva di 7000 mq di bosco. Ciò contribuirà al costituirsi di un microclima, alla produzione di umidità,
all’assorbimento di CO2 e polveri e alla formazione di ossigeno.
Sulla copertura di ciascuna torre è prevista la realizzazione di 22 pale eoliche, e parte dei parapetti delle terrazze ospiteranno pannelli fotovoltaici per una superficie totale di 500 mq. Ciò per contribuire al fattore di microclimatizzazione e ad aumentare il grado di autosufficienza energetica delle due torri. 
Per quanto riguarda l’energia “alternative” (o fonti rinnovabili), invece, bisogna prima analizzarne il significato; infatti, con questo termine non si intende soltanto quel tipo di energia che viene prodotto in assenza di petrolio, ma anche tutto quello che riguarda la produzione di energia ad impatto “zero” sull’ambiente.
Per la produzione energetica, spesso si utilizzano materie prime inquinanti, come ad esempio, il carbone, i combustibili, e quindi il petrolio; ed invece si esclude spesso di generare energia sfruttando il sole, l’acqua e il vento, materie prime ad impatto ambientale nullo.
Proprio per questo motivo, l’accelerazione intensa e non sempre prevedibile dei mutamenti politici, ideologici, economici, culturali e ambientali della nostra epoca e i limiti dello sviluppo, sono il quadro di riferimento entro cui si muove l’educazione ambientale. La consapevolezza, appunto, che l’ambiente non può essere considerato uno spazio illimitato e che le risorse del pianeta, quindi, non sono infinite, fa nascere una serie di risposte tra cui anche quella di tipo educativo.
L’investimento di energie sull’educazione ambientale è allora una delle possibili vie che si possono intraprendere per comprendere la complessità del reale e prendere coscienza della necessità di modificare la relazione uomo-natura, passando da una visione del mondo che vede l’uomo dominante sulla natura a una visione che vede il futuro dell’uomo come parte inseparabile del futuro della natura.
Sono riflessioni che delineano nuove finalità formative, che favoriscano la percezione, l’analisi e la comprensione dei cambiamenti, al fine di diventare cittadini consapevoli e responsabili nei confronti di sé, dell’ambiente e della comunità intesa non solo come società di appartenenza, ma anche come pianeta.


Si possono distinguere varie tipologie per creare energia pulita, in modo da non gravare sull’ambiente; esperimenti per ridurre l’impatto ambientale si stanno realizzando in molti paesi del mondo e in modi differenti.
Per porre fine ai problemi che riguardano la produzione di energia elettrica, la generazione del riscaldamento domestico e i carburanti per i trasporti, si cerca sempre più di inventare sistemi “alternativi”.
Partendo da quelli più comuni al giorno d’oggi, come i pannelli solari (o collettori che producono energia termica accumulabile), le celle fotovoltaiche ( per l’energia elettrica), le pale eoliche, gli impianti idroelettrici, si arriva a tutto ciò che è ancora in sperimentazione, come ad esempio il “totem” (Total energy module, un micro generatore per appartamenti che riusciva a produrre 15 kW di potenza e che generava sia energia che calore, molto usato in Germania)

Un approccio sostenibili, è d’obbligo, poiché sul nostro pianeta, stanno manifestandosi
 molteplici effetti negativi per quanto riguarda la questione ambientale:
  • inquinamento atmosferico (CO2 e altri gas) e i suoi effetti negativi (effetto serra, distruzione dello strato di ozono, piogge acide, malattie correlabili, ecc.);
  • prevedibile esaurimento delle risorse naturali non rigenerabili (petrolio, gas naturale);
  • inquinamento delle acque e del suolo e crescenti consumi di acqua potabile;
  • dissesti idrogeologici che si verificano in ogni parte del pianeta;
  • diminuzione della biodiversità, cioè delle specie animali e vegetali.
In realtà l'attenzione a questi problemi non è recente, in quanto molti studiosi, hanno già
 affrontato alcuni decenni fa, il tema della necessità di una nuova politica economica ed 
ambientale a livello globale.

Nel 1972 fu redatto un rapporto dal titolo “Limits to Growth” (“i limiti dello sviluppo”)
 da parte del Club di Roma, una struttura internazionale fondata dall'economista italiano
 Aurelio Peccei.
In questo rapporto si evidenzia che se l’attuale tasso di crescita della popolazione, 
dell'industrializzazione, dell'inquinamento e dello sfruttamento delle risorse continuerà 
inalterato, entro i prossimi cento anni, nel nostro pianeta saranno raggiunti i limiti 
dello sviluppo. Il risultato più probabile sarà un improvviso ed incontrollabile declino
della popolazione e della capacità industriale. Tuttavia è possibile modificare i tassi di sviluppo
 e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano
 futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna
 persona sulla terra siano soddisfatte e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio
 potenziale umano.
Nel 1980 fu pubblicato negli Stati Uniti un documento dal Council on Environmental Quality e dal Dipartimento di Stato, intitolato the global Report to the president, conosciuto con il nome di Global 2000”.

Questo documento iniziava con la seguente affermazione:
se continueranno le tendenze attuali, il mondo del 2000 sarà più popolato, più inquinato, 
meno stabile ecologicamente e più vulnerabile alla distruzione rispetto al mondo in cui
 ora viviamo.
Le gravi difficoltà che riguardano popolazione, risorse ed ambiente progrediscono visibilmente…
 Salvo progressi rivoluzionari della tecnologia, la vita per la maggior parte delle persone sulla Terra 
sarà più precaria nel 2000 di adesso, a meno che le nazioni del mondo agiscano in maniera 
decisiva per modificare l'andamento attuale”.


Il rapporto della Commissione Internazionale Indipendente su ambiente e sviluppo
 “Our Common Future” (Il nostro futuro comune) del 1987, noto come Rapporto Brundtland
 e la conferenza mondiale sull'ambiente tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, hanno definito 
in maniera ufficiale il termine “Sviluppo Sostenibile”.


Si definisce “Sviluppo Sostenibile”:
uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la 
capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni;
un processo nel quale lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento 
dello sviluppo tecnologico ed il cambiamento istituzionale sono tutti in armonia, ed accrescono le potenzialità presenti e future per il soddisfacimento delle aspirazioni e dei bisogni umani”.


Oggi possiamo considerare Frank Lloyd Wright il primo maestro dell’architettura
 bioclimatica moderna perché ha dimostrato una perfetta capacità di valutare gli
effetti climatici, soprattutto nelle Prairie Houses e nel Larkin Company Administration
Building a Buffalo. Proprio in quest’ultimo edificio Wright utilizzò un sistema di aria
condizionata per il riscaldamento e il raffrescamento interno: l’aria esterna era aspirata
nella parte alta dell’edificio, al di sopra degli inquinamenti esterni, e fatta scendere negli
scantinati, attraverso capaci condotti nelle pareti a camera d’aria delle torri d’angolo, poste ai
 lati delle scale; dove veniva ulteriormente depurata e riscaldata.  L’aria climatizzata era poi
spinta in alto attraverso condotti ascendenti immediatamente adiacenti alla torri delle scale,
 posti dentro massicci pannelli di mattoni forati collocati sulle pareti esterne, e distribuita,
piano per piano, attraverso bocchette d’uscita, dietro le torri, al di sotto delle balaustre delle
balconate. Gli stessi pannelli di mattoni forati contenevano anche i condotti di scarico attraverso
i quali era estratta l’aria viziata. Inoltre, ampie balconate circondavano l’ambiente di lavoro
 principale e permettevano alla luce di fluire all’interno, limitando l’uso della luce artificiale.


 Alvar Aalto, invece, pur non ispirandosi espressamente a studi bioclimatici, dispose a ventaglio i
piccoli appartamenti della casa-torre Neue Vahr di Brema, così che ogni stanza si allarga verso
la luce che entra dalle finestre della facciata esposte a sud, mentre i servizi e le comunicazioni
verticali sono chiusi a nord. Anche nelle fredde stagioni finlandesi, nelle residenze per i
lavoratori della fabbrica di cellulosa «Sunila», l’architetto aveva fatto una scelta simile: su
un terreno roccioso con colline e avvallamenti, i versanti meridionali sono stati riservati alle
residenze, gli avvallamenti destinati alle infrastrutture viarie e ai giardini e i versanti nord
 mantenuti a bosco. Louis Kahn, invece, lavorando nelle zone torride del Bangladesh e
dell’Angola inventò diverse soluzioni, come il muro forato davanti alla finestra e la doppia
copertura, per smorzare l’intensità della luce e del calore solare  e per ripararsi dalle piogge.
E in India, secondo Kahn, «l’orientamento in direzione del vento e il riparo del sole hanno
 suggerito gli elementi architettonici per la composizione».







In Brasile, Oscar Niemeyer utilizzò un’aggettante copertura e un brise-soleil regolabile sulla 
lunghissima e curva facciata nord dell’edificio principale del Complesso Ibirapuera a San Paolo, 
come in altri progetti, per ripararsi dal calore, ma i curtain-wall  dei grattacieli nella piazza dei 
Tre Poteri di Brasilia sono stati lasciati senza protezione contro il sole, benché rivestiti di vetri 
termo-assorbenti. 


Costruire
Il volume d’affari mondiale dell’industria delle costruzioni ammonta a più di 3 milioni di miliardi di dollari americani e conta per circa il 10% del prodotto interno lordo mondiale. Quello delle costruzioni è il più grande settore industriale negli Stati Uniti (12%) e in Europa (10-11% del PIL). In Italia il peso dell’industria edilizia è ancora maggiore. Dal 1999 i livelli produttivi del settore crescono sempre più rapidamente del Pil (complessivamente più 23 per cento contro più 8,6). Non solo: con un 2005 sostanzialmente a crescita zero del prodotto interno lordo nazionale, si può affermare che l’industria edilizia ha di fatto impedito che l’economia italiana registrasse un segno meno.
Questo dato ha una doppia chiave di lettura:
una lettura positiva che non può che prendere atto dei dati quantitativi di un settore produttivo trainante anche per l’occupazione, e una lettura critica che sottolinea l’anomalia italiana di un settore a basso contenuto tecnologico che catalizza investimenti produttivi che in Italia potrebbero o dovrebbero andare a settori industriali più capaci di sviluppare innovazione e competitività.
Il governo del territorio
La politica di governo del territorio in Italia è assai arretrata e confusa rispetto a quanto avviene nei principali paesi occidentali ad economia avanzata. La legge urbanistica in vigore è del 1942: la nuova legge urbanistica non ancora approvata non è una legge quadro che riorganizzi l’intera materia in modo sistematico e non affronta né la definizione di governo del territorio né gli altri temi che la sostanziano: paesaggio, ambiente, assetto idrogeologico, ecc
Piano regolatore, norme tecniche di attuazione, regolamento edilizio sono gli strumenti della pianificazione locale ed il loro impianto è dichiaratamente obsoleto figlio di una normazione concentrata sulla necessità di pianificare lo sviluppo quantitativo in edilizia cercando inutilmente di regolamentare l’enorme aggressione al territorio prodotta dal “boom” del primo dopoguerra.
In quegli anni l’attenzione ai temi ambientali era inesistente e lo sviluppo sostenibile non era nemmeno stato pensato.
Dal 1950 al 2000 si è costruito in Italia molto più che in tutta la lunga storia di questopaese.
L’urbanistica in Italia ha purtroppo fallito. Il territorio Italiano è il più devastato d’Europa. Oggi la necessità di regolamentare la quantità del costruire non si è spenta ma bisogna prendere atto che il 75% dell’attività edilizia riguarda il recupero dell’enorme patrimonio edilizio esistente.
Negli ultimi 40 anni il tema ambientale, nei paesi ad economia avanzata come il nostro, è diventato la contraddizione principale dello sviluppo. L’edilizia è diventata l’attività umana a più alto impatto ambientale. Lo sviluppo sostenibile è parte organica dei programmi dell’Unione Europea che
riconosce nell’edilizia il settore responsabile di oltre il 40% dei consumi di energia e delle conseguenti emissioni di inquinanti e gas serra. Il dato è chiaro ma non muove, soprattutto in Italia, politiche significative. Nessuno intende assumersi la responsabilità di introdurre nuovi criteri che potrebbero essere interpretati come ostacoli all’unico settore industriale con un trend positivo.
E’ necessario aumentare significativamente la quota del recupero dentro i numeri dell’industria edilizia nazionale. E’ necessario aumentare significativamente la quota dell’edilizia sostenibile dentro i numeri dell’industria edilizia nazionale.
I comuni
Gli strumenti di governo del territorio pensati per gli anni dello sviluppo quantitativo sono inevitabilmente inadeguati ad affrontare l’urgente necessità dello sviluppo
qualitativo. Nonostante gli sforzi di pianificazione sovralocale, in realtà il territorio è ancora
governato a livello locale: il piano regolatore, il regolamento edilizio e il permesso di costruire sono una responsabilità del Comune.
Il territorio non può attendere i tempi di una riforma urbanistica peraltro preoccupante. Gli strumenti di governo locale del territorio devono essere radicalmente riformati subito ripensandoli come strumenti di sviluppo sostenibile. L’urgenza dello sviluppo sostenibile richiede scelte molto rapidamente operative anche a rischio di errori che devono potere essere facilmente e tempestivamente
recuperati in itinere.

Il regolamento edilizio
Il regolamento edilizio è in tal senso lo strumento che meglio si presta per ridefinire rapidamente gli strumenti di controllo pubblico sull’edilizia. Non a caso su questo strumento si sono concentrate le maggiori attenzioni degli enti locali per iniziare a introdurre forme di indirizzo e promozione dell’edilizia sostenibile.
Il panorama di quanto si sta facendo è però molto eterogeneo e quasi sempre controproducente rispetto agli obbiettivi dichiarati. I regolamenti edilizi dei comuni italiani sono farraginosi elenchi di articoli fortemente vincolistici figli della cultura del sospetto verso il cittadino e della distanza del linguaggio tecnico dal modo di parlare e di leggere comune. Nessuna attenzione a favorire la partecipazione e la condivisione dei cittadini a un tema così centrale per la vita di ognuno ma anche per l’economia di ogni famiglia e per l’economia nazionale.
Quando i regolamenti edilizi in Italia assumono, anche marginalmente, i temi dello sviluppo sostenibile lo fanno con articoli aggiuntivi, con pagine in più, con un linguaggio tecnico complesso e quindi ancora più disincentivante. Questo produce un ulteriore allontanamento dalla condivisione e dalla partecipazione a temi strategici.
Lo sviluppo sostenibile in edilizia funziona se è chiaro e comprensibile. E’ necessario che il regolamento edilizio abbia quindi un’interfaccia utente semplice e diretta che usi il linguaggio della contemporaneità che è molto diverso dal “tecnichese”.
E’ anche necessario che il regolamento edilizio sia facilmente e rapidamente aggiornabile al rapido sviluppo delle conoscenze e delle innovazioni nel campo della sostenibilità. Serve creatività e integrazione di saperi.
L’impianto del regolamento edilizio deve prendere esempio più da un sito internet che da un’enciclopedia. Poche norme certe e chiare che aprano link a strumenti operativi di controllo della qualità degli interventi edilizi.
Gli strumenti operativi (SB100 ne è un esempio) devono funzionare come liste di controllo a scelta multipla che facilitino la partecipazione attiva ed elettiva degli utenti piuttosto che l’adesione passiva a regole prescrittive.
Gli strumenti operativi devono consentire la verifica della qualità degli interventi edilizi, il concetto di prestazione deve entrare nell‘edilizia tanto quanto è ormai entrato in tanti altri settori della nostra vita.
Gli strumenti operativi devono potere essere intesi come allegati integrativi al regolamento edilizio ed essere approvati con delibere di Giunta consentendo un rapido aggiornamento delle politiche locali rivolte alla qualità mentre si aggiorna il sapere e lo sviluppo tecnologico.
Gli strumenti operativi devono essere un’area di informazione e supporto operativo per chi ha un edificio e ne vuole conoscere l’effettiva qualità, per chi deve ristrutturare un edificio e lo vuole migliorare, per chi deve costruire un nuovo edificio e vuole che sia efficiente, sano e pulito.